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Corpi e professioni: il lavoro freelance/remoto per le persone gender non conforming

Ho riflettuto molto prima di scrivere questo articolo, perché spesso ciò che scrivo non è rappresentativo della comunità enby e gender non conforming, che presenta persone di età, formazione, provenienza, aspetto fisico diverso.

Questo blog ha sempre attratto persone tendenzialmente vicine, sotto questi aspetti, alla mia esperienza, ed è per loro che scrivo questo articolo, e per tutti coloro che potrebbero comprendere una condizione che non li riguarda direttamente.

Identità di generazione quando la non conformità si intreccia ad altri temi

Identità di generazione: quando la non conformità si intreccia ad altri temi

Tante tematiche si incrociano alla non conformità di genere: ad esempio, la generazione. La mia, in particolare, quella dei nati negli anni Ottanta, ha subìto il problema della quasi impossibilità di stabilità economica facendo un lavoro coerente ai propri studi: spesso la scelta era tra un precariato “travestito” da professione (la finta partita iva) o un lavoro “fantozziano”, con tanto di badge, buoni pasto, ferie e malattie, uno stipendio modesto, e un lavoro ripetitivo, accessibile senza competenze specifiche, e senza prospettive di crescita.
A questo, si aggiungeva la non conformità di genere, che coinvolgeva dati anagrafici e aspetto fisico, con tanti pellegrinaggi da amministratori delegati ed HR, per chiedere la gentile concessione di una mail adeguata, o di un bizzarro compromesso.

Aspetto fisico, talento, professionisti interni ed esterni

Anni fa, prima della pandemia, alcune persone che condividevano con me un percorso di non conformità di genere, mi avevano prospettato la possibilità freelance, dicendo che era l’unica vera strada che metteva al primo posto il talento, e in cui l’aspetto fisico e i dati anagrafici sfumavano in un non precisato sfondo, riservato al momento del saldo del lavoro. Molte persone, spesso di origine biologica xx, e di aspetto maschile, mi avevano narrato calvari a finta partita iva in agenzie di comunicazione, studi legali, e altri spazi, con cui avevano collaborato in modo fruttuoso da esterni: prestatori d’opera, collaboratori esterni, figure il cui unico dato importante è il talento, la competenza, la velocità e l’affidabilità nel rispetto delle consegne.

La marginalità non rappresenta tutte le persone gender non conforming

Il talento è un argomento tabù nell’attivismo di ispirazione left, che punta molto sull’estendere il diritto al lavoro “a tutti”, e a non concentrarsi sulle differenze dei vari profili professionali, e così, quando i partiti “amici” e le associazioni che sono “amiche” delle minoranze parlano di lavoro (e a volte mi invitano anche relatore), si concentrano sulla marginalità estrema: prostituzione, percorsi di recupero da esperienze di dipendenza, abbandono scolastico, situazioni di cui sicuramente è importante parlare, ma che a torto si considerano rappresentative della multiforme realtà dell’affermazione di genere, fatta di persone che un percorso professionale lo hanno affrontato e terminato nonostante lo stigma, oppure semplicemente che hanno preso consapevolezza dopo averlo concluso.

 

 

Rampanti di destra e negazione del “gap”

Si apre un difficile tema, che sostanzialmente divide “destra” e sinistra. Quante volte ho letto meme canzonatori di persone nella mia rete linkedin, che deridono chi si culla nel vittimismo per giustificare i suoi fallimenti?
Sono persone che affrontano con dileggio temi come la scevà (schwa), i pronomi su linkedin, e i personaggi inclusivi di Netflix.

Non sono solo i “rampanti di destra” ad attribuire le colpe di un fallimento professionale all’individuo e non al contesto. Anche alcune cattive psicoterapie, avulse dalla sociologia e dall’impatto esterno, cercano di convincere la persona che la responsabilità è solo sua, e che le sfumature della sua soggettività (sesso, genere, etnia, provenienza da una zona d’Italia o del mondo, costituzione fisica) sono irrilevanti, e “aiutano” la persona ad “accogliere” lo status quo e a “integrarsi.

L’attivismo e gli strumenti interpretativi VS il rischio “vittimismo”

Eppure, nel mio caso, ad aprirmi gli occhi, quando i miei riferimenti erano solo questi “rampanti” e i loro figli, è stato proprio l’attivismo. Prima di allora, non avevo avuto strumenti interpretativi sufficienti a vedere alcuni episodi della mia vita dalla giusta prospettiva.

Tuttavia, se l’attivismo mi ha salvato da una colpevolizzazione eccessiva, ha rappresentato anche un freno a mano messo mentre cercavo di spingere il pedale dell’acceleratore: quell’eccessivo vittimismo, quella mancanza di modelli positivi, e di storie a lieto fine, per persone col mio aspetto, con la mia origine biologica, con un tipo di documenti simili ai miei, mi scoraggiava dal tentare di migliorare la mia vita professionale, e mi faceva considerare “fortuna” il semplice fatto di avere un posto di lavoro stabile. Così, passavo le mie giornate tra un lavoro da otto ore e l’attivismo, a cui dedicavo tutto il resto del tempo.

Sapevo che il semplice invio di un cv, con un nome maschile, non anagrafico, associato al mio corpo senza passing, avrebbe scatenato ilarità, e devo dire che probabilmente un tempo ciò era vero.

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L’irruente arcobaleno arrivato dagli Stati Uniti, e i modelli vincenti

Poi, sono successe quelle cose, quelle che sono tanto derise dai “rampanti” manager maschi di linkedin: la scevà, i pronomi, i personaggi di Netflix, medici, avvocati, commercialisti di genere non binario.
E, per quanto l’attivismo raramente lasci spazio per dirlo a pieni polmoni, da attivista in pensione sento la libertà interiore di poterlo dire: finalmente non più solo tossicodipendenti, sex workers, neet e hikikomori. Niente più marginalità, o almeno non solo quella.

Io credo che se oggi un datore di lavoro non ride più in faccia a persone con documenti, aspetto, e origine biologica simile alla mia non è grazie all’importante attivismo che noi presidenti di associazioni e noi blogger abbiamo fatto per anni, ma grazie all’aiuto che i paesi occidentali evoluti ci hanno dato nella comunicazione.

Estetica, lavoro dipendente/autonomo e lavoro remoto/in presenza

Rimane un aspetto importante: la forma contrattuale e il luogo di lavoro. Sebbene la situazione sia migliorata in generale, rispetto agli anni in cui iniziavo a muovere i primi passi nel mondo delle professioni, l’impatto estetico rimane rilevante, e, nonostante sia dipeso da una pandemia inattesa, l’abitudine al lavoro remoto ha creato nuove opportunità professionali, riducendo notevolmente le occasioni di disagio, anche solo il semplice, paternalistico “cara” del barista di fronte all’ufficio. Inoltre, molte multinazionali, con una chiara politica di inclusione, hanno esteso la loro ricerca a Paesi esterni, tra cui l’Italia, e ci hanno permesso di candidarci e di lavorare per loro comodamente dalla nostra città di residenza. Si tratta di posizioni per cui abbiamo le competenze, ma per cui c’è poco mercato in Italia, oppure per cui il mercato c’è, ma non c’è abbastanza apertura mentale per accogliere nel team una persona non conforme col rispetto necessario.

Non è solo questo. È un non dover più dimostrare nulla. Siamo lontani dai vecchi coming out di chi compie un percorso canonico e “avverte” il suo capo che “a breve il suo aspetto cambierà sensibilmente “e quindi è opportuno cambiare i biglietti da visita e la mail”. Sono sicuro che quelle persone volevano il cambio di aspetto, oltre ad usarlo come grimaldello per “obbligare” il datore ad attivare una carriera alias, per “non turbare il cliente”, che avrebbe visto spuntare, all’impiegata Carmela, un folto pizzetto.

Anche quando il pizzetto non c’è, si sente quasi il “dovere” di “dimostrare” un minimo di “passing” per ringraziare quel nome cambiato su mail, badge e buoni pasto.

Il lavoro in remoto ha eliminato tutto ciò, anche se in video qualcosa si vede, e di certo si sente la voce, ma si elimina parte della pressione dovuta all’impatto della propria immagine rispetto alla competenza.

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Conclusioni

Per concludere, so che suona soggettivo dire che lavorare come professionista autonomo, e prevalentemente in remoto, mi ha dato una felicità ed una serenità che non avevo mai provato nella mia vita lavorativa, permettendomi stili di vita confortevoli.

Eppure, consigliare questa modalità ad altre persone di simile aspetto, documenti, formazione, potrebbe essere un errore.
Da un lato, in questo modo offro uno spiraglio, magari non ancora esplorato, a chi sta soffrendo, come ho sofferto io in passato.
Dall’altro, mi sembrerebbe di mortificare il lavoro di molti attivisti, che questo stesso comfort vogliono garantirlo nel lavoro dipendente e in presenza, come l’attivista transgender Monica Romano, da sempre garante dei diritti delle persone transgender sul posto di lavoro. La carriera freelance deve essere una scelta, non l’unica strada possibile, perché le persone non conformi devono avere il diritto a pensione, buoni pasto, assistenza sanitaria, rol e ferie (ma anche del poter fare avanzamenti di carriera), se è quello che desiderano, senza pagare il prezzo del misgendering e del deadnaming.
È per questo che ho aspettato così tanto per dire la mia sul tema. E spero che siano riflessioni utili per voi.

 

 

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