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In libreria l’edizione del ventennale di “Ragazzi che amano ragazzi”. Dieci domande ed un evento con l’autore Piergiorgio Paterlini.

Ragazzi che amano ragazzi” è il long-seller della bibliografia italiana a tematica omosessuale, scritto da Piergiorgio Paterlini ed edito da Feltrinelli nel 1991. In due decenni di vita l’impianto del libro non ha subito particolari cambiamenti, salvo la pubblicazione delle lettere dei lettori nel 1998 e di un piccolo maquillage nel 2008. Oggi 22 febbraio 2012 è uscita in libreria l’edizione del ventennale; in questa occasione l’autore ha voluto celebrare l’avvenimento con l’integrazione di alcuni nuovi testi, mantenendo comunque inalterato il cuore del libro: le storie di ragazzi che amano ragazzi.

Paterlini, che già a fine 2010 ci ha accompagnato in un percorso alla scoperta di “Niente Paura – Come siamo, come eravamo e le canzoni di Luciano Ligabue, di cui è stato sceneggiatore, ha accettato di condividere in una intervista con Milk Milano alcune riflessioni sui venti anni del libro. Inoltre, domenica 4 marzo alle ore 15.00 Milk Milano organizza presso la sede del Guado (via Soperga 36 – Milano) l’evento “Ragazzi che ancora amano ragazzi”, che vedrà la partecipazione proprio di Piergiorgio Paterlini.

Ciao Piergiorgio, e grazie ancora per la disponibilità per questa intervista.
Oggi esce in libreria l’edizione del ventennale del tuo “Ragazzi che amano ragazzi”, inevitabile chiedersi come ci si sente, davanti ad un traguardo di questo tipo.

Mi sento felice – inutile negarlo – come scrittore, e anche come uomo, perché le migliaia di lettori che ho incontrato senza mai una pausa mi hanno fatto capire che sono stato loro utile e mi hanno dato più di quanto io abbia dato loro. Infelice come cittadino. Pensavo, speravo che il libro invecchiasse nel giro di 4-5 anni, del resto dall’89 – quando avevo cominciato a girare l’Italia per questa inchiesta – il mondo intero stava radicalmente mutando. In realtà, ragazzi che oggi sono più giovani del mio libro si riconoscono in quelle storie e – cosa ancor più incredibile – in quell’Italia antidiluviana. È un grande fallimento per il livello di civiltà di questo Paese. Nella quarta di copertina della nuova edizione si può leggere questa frase: “L’attualità di questo libro è un manifesto della vergogna italiana”.

Chi, o cosa, impedisce al tuo libro di invecchiare in pace?
Appunto l’immobilismo inconcepibile di questo Paese, della sua legislazione, delle sue istituzioni laiche e religiose, eccetera. Ma questi lunghi anni mi hanno permesso di fare una considerazione credo più profonda e comunque più slegata dall’attualità. A un certo punto ho dovuto dire a me stesso: una faccenda come l’omosessualità, inestricabilmente legata a due fra i tabù più tosti con cui abbiamo a che fare, la sessualità e la religione, è impensabile si risolva davvero nel profondo in un paio di decenni, o anche in cinquant’anni di lotte per i diritti civili. Questa è una riflessione che per ora mi sembra di fare in solitudine. Mi sembrerebbe importante invece diventasse parte della coscienza, e di una discussione, più ampie.

Il libro si presta a letture molto diverse: dal punto di vista del ragazzo adolescente che si scopre omosessuale, dal punto di vista dell’adulto che riconosce in quelle storie la propria adolescenza, ma anche dal punto di vista di chi dai temi di accettazione e discriminazione non è colpito, o quantomeno non colpito direttamente. Quanto hanno inciso, se hanno inciso, considerazioni di questo tipo nella stesura del libro?
Molto. Nel senso che non ho mai pensato a un libro per giovani omosessuali e neanche per omosessuali tout-court. Ho sempre pensato a un libro molto “laico”, in senso lato, un libro non-militante e per tutti. E mi sembra che in questi vent’anni sia stato proprio così.

E quanto è difficile esporre il pensiero di un adolescente in modo da renderlo accessibile ad un pubblico così vasto?
È difficilissimo, sempre, riportare con fedeltà ma anche in modo letterariamente “bello” il pensiero di un altro, adolescente o no. La tecnica dell’intervista – e ci sono molti tipi di interviste ovviamente – per me è molto affascinante. Non si tratta mai di “trascrivere” ma proprio di scrivere. Mi è capitato di pensare che un libro di storie altrui abbia più a che fare con i temi molto complessi della traduzione da una lingua straniera che non della narrativa in proprio, se vogliamo dirla così.

Nel corso del tempo, accanto alle storie hanno assunto un ruolo di maggior rilievo le lettere dei lettori. Perché la decisione, a partire già dal 1998, di pubblicarne alcune sulle nuove edizioni?
Se c’è qualcosa di veramente straordinario in questo libro – dal punto di vista personale, sociologico, editoriale – è il rapporto appunto straordinario che si è creato lungo tutti questi vent’anni con i lettori. Le lettere raccontano in piccolissima parte questo rapporto che è diventato parte integrante del libro o un testo parallelo, non saprei come definirlo. Ma nella nuova edizione le lettere – almeno come settore a parte – non ci sono più. E’ una decisione totalmente mia, condivisa poi dall’editore. Ho pensato che fermarsi con le lettere a dieci anni fa non avesse senso, ovviamente. Aggiungerne altre cento pagine tutte molto simili fra loro – un miracolo per me, ma forse una penitenza non indispensabile per il lettore – non mi sembrava la soluzione. Ciò che si troverà in più in questa edizione è il racconto il più possibile complessivo di questo ventennale rapporto libro-(autore)-lettori.

Una delle lettere pubblicate è quella della tua maestra delle scuole elementari. Accanto a un ottimo giudizio tecnico, la tua maestra esprimeva alcuni dubbi in merito all’uso di termini ed espressioni forti, che – a suo parere – potevano essere trattati diversamente. A distanza di anni, c’è qualcosa che in quelle o in altre espressioni, termini o stili cambieresti?
No, assolutamente. Non c’è poi nulla di così forte, anzi anche le espressioni che vent’anni fa potevano sembrare un po’ “hard” oggi sembrerebbero acqua fresca persino a un bambino. Ma certo un linguaggio diretto, sincero, il linguaggio non edulcorato dei protagonisti credo abbia dato un significato e una forza particolari a questo libro.

Hai mai percepito il pericolo che il libro potesse prestarsi ad interpretazioni pruriginose, anche in buona fede?
Sì. E qualcuno me lo ha anche detto. Poi bisognerebbe intendersi sul significato di pruriginoso. Per essere vero, questo libro doveva essere (moderatamente, l’ho detto) anche un testo erotico. A patto rimanesse della più alta qualità letteraria possibile. Voglio essere molto più “hard” – per chiarezza – qui che non nel mio libro: io do per scontato che qualcuno si masturbi leggendo le memorie di Casanova o, che so, “Ernesto” di Saba. E allora?

Oggi le persone che hanno letto le prime edizioni del tuo libro hanno certamente qualche primavera in più. Ti è mai capitato di riflettere, a distanza di anni, con i tuoi lettori “della prima ora”? E puoi dirci quali sono state le sensazioni che ti hanno trasmesso?
È capitato. Ma non c’è una risposta di sintesi. I lettori della prima ora si confrontano con ciò che erano e ciò sono oggi, e magari mi raccontano questo. Sono insomma altri pezzi di vita, tutti molto personali e non riducibili a riflessioni generali. Se non la solita: come mai questo libro, un libro così è ancora attuale oggi?

Tornando invece all’”oggi”, qual è il rapporto di “Ragazzi che amano ragazzi” con le nuove tecnologie? In altre parole, l’enorme semplificazione nell’accesso alle informazioni reso disponibile dalla rete rischia di annacquare o comunque di far perdere potenza ai messaggi del libro?
Penso di no. Cioè. È ovviamente del tutto aperto il rapporto fra libri e nuove tecnologie – ma il mio esattamente come tutti gli altri – ma credo che un testo come il mio più di altri si presti a “dimostrare” che i libri in formato cartaceo, o al limite su iPad, sono ancora uno strumento non sostituibile. Esattamente come vent’anni fa i miei lettori sentono il bisogno di andare in libreria, portarsi a casa la propria copia, magari nasconderla, leggerla in una notte, eccetera. Le nuove tecnologie – che amo senza reticenza – hanno di molto favorito il rapporto fra lettori e autore, che sarei poi io. Non a caso ho intitolato uno dei due testi nuovi per l’edizione speciale: “Dalla biro a facebook”.

Il viaggio di “Ragazzi che amano ragazzi” è quindi probabilmente ancora lungi dal giungere a termine. In questa sostanziale immobilità del paese, c’è ancora spazio per la speranza, o dobbiamo rassegnarci all’idea che “l’attualità di questo libro” continui ad essere un “manifesto della vergogna italiana”?
Credo che la speranza sia un “sentimento” soggettivo. Certo, legato anche a fattori oggettivi, ma non, almeno non sempre, così determinanti. Quindi mai come a questa domanda posso rispondere solo sul piano personale. E io ho speranza. Una speranza spero non cieca o stupida, ma speranza. E difficilmente mi rassegno a qualcosa. Il problema mi sembra più su cosa, e ancor più su chi sperare. Non spero ingenuamente nel “popolo”, anzi. Ma spero nelle persone. Questa speranza c’è del resto nella nuova edizione di “Ragazzi che amano ragazzi”. Racconto ciò che è rimasto immobile, ma anche alcuni segni di futuro, di un futuro diverso che ci sono e si vedono già oggi. Certo l’arretratezza e l’immobilismo del nostro Paese fanno paura, anche rispetto a Paesi da cui mai – arrogantemente peraltro – ti aspetteresti lezioni, o anche soltanto esempi positivi. E allora, come dice uno slogan che a me piace molto e che non vedo perché non dovrebbe essere applicato anche alla “questione omosessuale”: “Immigrati, per favore non lasciateci soli con gli italiani”.