Vai al contenuto

“Mario Mieli: 30 anni dopo”: incontro con Franco Buffoni e Andrea Contieri

“Mario Mieli: 30 anni dopo”: il circolo di cultura omosessuale Harvey Milk apre il nuovo anno sociale con una presentazione di un libro che parla di una delle figure più importanti del movimento LGBT italiano, Mario Mieli. L’opera, pubblicata dal Circolo Mario Mieli di Roma, sarà presentata da Franco Buffoni con la presenza di Andrea Contieri, curatore dell’edizione insieme a Dario Accolla, venerdì 27 settembre alle ore 19,00 presso la sede Guado di Via Soperga 36, Milano. Abbiamo intervistato l’autore dell’introduzione, Franco Buffoni, nonchè ideatore della pubblicazione, alla luce del ritrovamento della fitta corrispondenza epistolare che c’è stata tra Franco e Mario. Ne traspare una figura culturalmente e artisticamente eclettica, complessa e interessante, punto di riferimento per molti giovani, ancora oggi, proprio grazie al “suo essere stato Queer quando nel mondo anglosassone quella parola era ancora un insulto e basta”.

1. Mario Mieli: 30 anni dopo. Da dove nasce l’idea di scrivere un libro su una figura fondamentale del movimento omosessuale italiano?

L’idea mi venne alcuni anni fa quando casualmente ritrovai degli inediti di Mario – rimasti tali dai primi anni settanta – e alcune delle molte lettere che lui mi scrisse in quel fatidico decennio (ovviamente mancano le mie lettere a lui). Ne parlai con il presidente del Circolo di Cultura Omosessuale “Mario Mieli” di Roma, Andrea Maccarrone, il quale abbracciò con entusiasmo l’idea che il Circolo sponsorizzasse la pubblicazione in occasione del trentennale della morte. Dario Accolla e Andrea Contieri hanno poi curato l’edizione.

2. Che cosa Mario Mieli può ancora insegnare oggi?

Per capire Mieli nella sua genialità e nei suoi limiti, nei suoi privilegi e nel suo eroismo, per capire Mieli morto giovane e dunque per sempre caro agli dei, occorre – io credo – contestualizzarne pur se brevemente il pensiero in quel fatidico decennio tra gli anni settanta e l’inizio degli ottanta. Assodato che l’eterosessualità, come affermava Foucault, si definisce in grande misura attraverso ciò che rifiuta (così come una società si definisce attraverso ciò che esclude), nell’antica assenza della necessità di definirsi stava allora il nocciolo della questione dell’identità.

Ero con Mario a Londra nel 1970 quando nacque il Gay Liberation Front (posseggo ancora un quadernetto di appunti con inciso il mitico indirizzo di New Caledonian Road). GLF che aveva mutuato nome e indirizzi dall’omonimo gruppo statunitense formatosi nel 1969 in seguito ai fatti di Stonewall.

Mieli ebbe allora l’intuizione di porre la bisessualità – o meglio la pansessualità – per tutti come un traguardo di liberazione… Ovvio che non si parlava ancora di Aids: dunque un discorso di promiscuità poteva essere accettabile, proprio in sé, come proposta teorica. Né si parlava ancora di procreazione assistita. E perché la comunità dei “liberati” potesse riprodursi, non si poteva immaginare altra via se non quella dell’accoppiamento con le compagne.

Oggi – concettualmente – tutto questo è superato. È come se fossero trascorse ere geologiche. E questo vale anche per Foucault. Che morì nell’84. Come Mieli, anche Foucault si era formato mentre fiorivano i movimenti di liberazione legati al 68: occorreva fantasia, l’immaginazione al potere. Gli anni successivi dimostrarono che una rivoluzione era davvero avvenuta. Ma per opera degli scienziati, a Silicon Valley e nei laboratori di ricerca che avevano sperimentato la fecondazione in vitro. Permettendo agli omosessuali di non essere più sterili senza doversi necessariamente accoppiare controvoglia. Dando una volta ancora ragione all’impianto filosofico analitico. E al buon pioniere e martire del movimento omosessuale internazionale Magnus Hirschfeld, che come motto si era dato: “Per Scientiam ad Justitiam”.

Sintetizzando credo che il grande lascito di Mieli alla nostra contemporaneità sia una sorta di Queer ante litteram vissuto e pagato in prima persona. In questo credo che Mario sia stato, sia e resterà insuperabile.

3. Il tuo rapporto con Mario era molto forte: di amicizia, di intesa intellettuale e di forte sintonia umana. Che cosa ci racconti di Mario Mieli persona?

Ci conoscemmo giovanissimi (fu Milo De Angelis a presentarci) e diventammo subito amici. La nostra amicizia nacque all’insegna della poesia nell’inverno 1969-70. Con De Angelis, Angelo Lumelli e Michelangelo Coviello costituimmo un gruppo di aspiranti poeti: ma costoro erano tutti e tre eterosessuali; fu dunque naturale fin dalla prima “riunione” che Mario e io si fraternizzasse maggiormente, con confidenze: eravamo entrambi “presi” da Coviello e in qualche modo in competizione. Ma c’era anche molto fair play tra noi e persino un vago corteggiamento reciproco. Ricordo anche che sovente, in quelle riunioni a Porta Romana in via Col di Lana a casa di Lumelli, sedevamo (per terra: usava così allora) vicini e allora le confidenze sottovoce si sprecavano. Perché oltre a noi cinque (il gruppo storico) venivano anche altri ragazzi. Costituivamo una sorta di porto di mare per anime belle di passaggio col debole della poesia. E Mario ed io stendevamo classifiche con votazioni immediate, ci spartivamo zone di competenza, sfere di influenza…:

“Quello è etero perso, te lo lascio, vedi di farlo ubriacare”.

“È astemio”.

“È uno di quelli che ci faranno i figli per quando saremo vecchi”.

4. Quale è il messaggio più forte e caratterizzante della figura poliedrica di Mario Mieli?

La vita di Mario fu tanto breve (vista con lo sguardo di oggi), ma passò attraverso fasi fortemente differenziate tra loro. In pratica visse un’intera esistenza con esperienze le più disparate, bruciando ogni tappa con una velocità impressionante. Posso riassumere questo pensiero in modo aritmetico: è come se a ogni anno di vita adulta da lui vissuto corrispondesse un decennio di una “normale” esistenza. Mario conobbe la delusione e il tramonto: non oso scrivere la “vecchiaia” perché farei ridere, ma la perdita dello smalto, della freschezza e della brillantezza, sì. Mario a trent’anni si sentiva al tramonto: con bloccata, esaurita ormai, la fase politica rivoluzionaria; schifato e sentito come repellente ogni impegno di tipo “riformistico”; logorato da qualche eccesso di troppo – soprattutto l’acido lisergico – quell’eloquio un tempo tanto accattivante; e incrinata quella prontezza di riflessi che era sempre stata la sua vera “marcia in più”. E soprattutto si sentiva helplessly, totalmente senza difese, di fronte alla figura onnipotente del potentissimo padre, che dopo aver combattuto con tutte le armi disponibili il suo coming out (che allora si chiamava semplicemente sputtanamento), riusciva ancora a interferire nella sua vita adulta di uomo di lettere impedendo ad uno dei maggiori editori italiani (Einaudi) di pubblicare il suo romanzo (che in quanto autobiografico poteva ledere  il buon nome della famiglia).

Il suo messaggio più forte per i giovani di oggi, secondo me, è proprio quel suo essere stato Queer quando nel mondo anglosassone quella parola era ancora un insulto e basta.

5. Mario Mieli poeta: quale è la caratteristica letteraria ed estetica dell’autore?

Le poesie che Mario ci ha lasciato sono giovanili. Ma che dolcezza rileggerle oggi! Me le ricordavo belle e tali sono rimaste. Nell’insieme mi sembra proprio che tengano ancora. Anche le meno riuscite hanno un guizzo, almeno nel finale. Certo, quelle note didascaliche da studente di filosofia – da lui apposte ai testi – spesso appiattiscono, ma ho pensato che fosse meglio lasciarle, per completezza, perché così il giovane Mieli le aveva concepite. Con i suoi autobiografismi minimi e le sue impuntature, come in “Febbraio 71” con quel terzo verso, dove Mario scrive “mi rupperò”, intrecciando funambolicamente passato remoto e futuro.

Tra l’altro sembra una poesia anche il pizzino ricavato dalla carta argentata di un pacchetto di sigarette e scritto in francese, perché tra i nostri tanti snobismi di allora c’era anche quello di parlarci e di scriverci nella lingua dell’aristocrazia russa. Un biglietto rimasto per quattro decenni a mia insaputa a riposare tra le poesie (che non credevo proprio di avere conservato):

Tu as pudeur bien

de tes sourirs…

Mais pour moi, pour

moi non. N’est-ce pas?

Ça me semble bien

pudeur de dents.

Tu as de très belles

couleurs ce soir. Oui

Hai pudore persino

dei tuoi sorrisi…

Ma per me, per

me no. Non è vero?

Mi sembra quasi

pudore dei denti.

Hai dei bellissimi

colori stasera. Proprio

6. Mario Mieli autore teatrale: quale stile si respira nelle sue opere?

Nel libro questo aspetto fondamentale  della scrittura del Mieli più maturo è analizzata in un ampio saggio da Francesco Paolo Del Re, che è autore Rai oltre che militante del “Mieli”. La sua analisi è incentrata in particolare sull’opera teatrale inedita riprodotta interamente nel nostro libro. In sintesi potrei dire che lo stile di Mario scrittore di teatro risente delle grandi lezioni di Beckett e Ionesco coniugate a una gayezza onnipervasiva che potrebbe richiamare quella di Wilcock.

Al riguardo sono contento che si sia conservata l’ultima lettera del 1980 a me indirizzata, perché lì Mario – ormai definitivamente Mary (così si firma) – mostra di essere preoccupato per il pagamento di una traduzione che gli avevo procurato presso Guanda. Abitava da solo, ormai, a Milano, in un piccolo appartamento piuttosto modesto nei pressi dell’Arco della Pace e doveva fare i conti molto attentamente. Perché ricordo questo? Perché si tratta dello stesso appartamento e dello stesso stabile che fa da sfondo al monologo teatrale La mia Justine riprodotto in questo volume e commentato da Del Re.

Erano finiti i tempi dei folli soggiorni londinesi e quelli ancora precedenti della ricca casa di famiglia in via De Marchi a ridosso di via Manzoni e del Teatro alla Scala. Il suo amante nel 1980 era un operaio (e questo rendeva Mario molto orgoglioso): lo raggiungeva in bicicletta molto tardi la sera, in zona Navigli…

Purtroppo si tratta anche dello stesso appartamento dove Mario si suicidò, col gas, mettendo la testa nel forno, proprio come Sylvia Plath.

7. A chi è rivolta l’opera? A chi Mario Mieli si rivolgeva nella sua ricca produzione artistica letteraria e nel suo attivismo?

Quando si parla di “opera” con riferimento a Mieli occorre sempre distinguere le varie fasi, perché Mario si espresse in tutti e quattro i fondamentali generi letterari: dalla poesia degli anni giovanili alla saggistica della tesi di laurea poi diventata Elementi di critica omosessuale (Einaudi, poi Feltrinelli), al teatro degli anni del successo, alla narrativa del Risveglio dei Faraoni”. Quindi se le poesie erano rivolte a un ipotetico pubblico di lettori di poesia, la saggistica e il teatro erano maggiormente volti a un pubblico militante, oggi diremmo lgbtqi.

E poi va contestualizzata la svolta del 1974, che segnò la fine del Fuori. Mario era ormai molto deluso dalla politica. E il movimento nell’insieme lo aveva a più riprese escluso: si sentiva tradito e emarginato. Tornò a vedere nella letteratura la sua vera vita e il suo riscatto: ma non si trattava più della poesia degli anni giovanili, né della saggistica alla quale oggi deve la sua fama internazionale, né del teatro degli anni dell’impegno e del successo. Ormai Mario considerava la narrativa come l’àncora di salvezza, anche dal punto di vista economico. Veniva da una folle delusione: aveva perduto in un viaggio dall’Oriente (“strafatto di funghi”, parole sue), forse in aereo, o prima in aeroporto, il dattiloscritto in unica copia del suo romanzo più bello. Ormai puntava tutto sul  Risveglio dei Faraoni. Ma trattandosi di una autobiografia in cui la famiglia era riconoscibile, il potentissimo padre intervenne, costringendo Einaudi a non onorare il contratto. Rientra perfettamente nel carattere orgoglioso e dignitoso di Mario parlare, in una lettera a un amico, della mancata uscita del libro come di una decisione personale. E di suicidarsi il giorno dopo.

8. Quanto rimane, oggi, nel movimento, sia a livello socio politico, sia culturale, di Mario Mieli?

Rimane fondamentale – e non solo per l’Italia Mario Mieli saggista, che con gli Elementi si affianca a Foucault nell’aprire nuovi orizzonti al movimento gay internazionale. E soprattutto rimane la sua utopia queer: i decenni successivi alla sua esistenza stanno dimostrando che anche per gli etero quella è l’unica vera dimensione di salvezza.

Il suicidio di Mario Mieli nel marzo del 1983 fu immediatamente seguito dalla fondazione del Circolo di Cultura Omosessuale a lui intitolato a Roma. Anche senza la sua morte il Circolo sarebbe nato, ma avrebbe avuto un altro dedicatario. Probabilmente sarebbe stato intitolato a Salvatore Pappalardo, un operaio 36enne siciliano che lavorava a Torino. Il 23 aprile 1982 Pappalardo venne assassinato a Monte Caprino a Roma. Aveva lasciato la valigia a stazione Termini, qualche ora di battuage e sarebbe poi ripartito per la Sicilia. Lo faceva tre volte all’anno quel viaggio, sei volte all’anno concedendosi quella sosta a Roma.

Nell’intitolazione del Circolo prevalse il nome di Mieli per l’intelligenza politica, il coraggio, la consapevolezza, l’impegno a tutto campo. Ma non vanno dimenticate le vittime, gli oppressi: le migliaia di Salvatore Pappalardo ai quali il nostro impegno deve essere sempre dedicato.

9. Quali sono state le reazioni del pubblico, oggi, nell’affrontare una figura spesso sconosciuta e, finora, mai affrontata in modo completo e complesso come, invece, fa l’opera?

Il libro è uscito da pochi mesi, ha avuto molte presentazioni nell’ambito della gay community, ma anche riscontri più complessivi come dimostra questa intervista su Radio3

http://www.francobuffoni.com/audio_fb_racconta_mieli.aspx

In genere, come spesso mi accade, sono rimasto deluso dalla reazione degli intellettuali italiani, che credono di sapere già tutto, di avere inglobato ogni precedente esperienza culturale, e invece – come avviene con riferimento all’ambito lgbtqi – alla prova dei fatti sono di una ignoranza spaventosa, forti solo dei loro pregiudizi incrostati negli anni. Spero nelle nuove generazioni. Ma non più di tanto. Perché ne ho conosciuti i padri.

Intervista a cura di Alessandro Rizzo a Franco Buffoni