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Trilogia del Triangolo: Martire, Ripulisti-ti-tu e Deep

La “Trilogia del Triangolo” è andata in scena allo Spazio Tetrulliano di Milano lo scorso 14 gennaio, per una quattro giorni con tre “one woman show”: una santa, una prostituta e una madre. Il gioco del doppio e la presenza narrativa e suggestiva della musica ci portano in una drammaturgia che vuole essere tra “la grammatica filmica” e i “codici della tradizione del teatro”. Gli autori parlano di “corpo ibrido”, frutto di una ricerca continua e intensa. Identità di genere e la figura della donna sono le parti strutturali delle narrazioni. Ana Shametaj regista, e’ stata intervistata, insieme alle attrici, Marta Lunetta per Martire, primo spettacolo della trilogia, scritto da Alessandra Ventrella; Alice Raffaelli, attrice del secondo, Repulisti-ti-tu, scritto da Riccardo Calabro’; e, infine, Mariasofia Alleva, per Deep, terzo e ultimo della trilogia, in scena con Alice Raffaelli, scritto da Riccardo Calabro’ e da Ana Shametaj.

Ana, da dove nasce l’idea della trilogia?

L’idea iniziale è nata con la costituzione del primo spettacolo, Martire. Volevo costruire un unico spettacolo nei generi e nei linguaggi a livello performativo. Da Martire, uno spettacolo pop con prosa, si giunge a un’antitrama che comunica altri canali e non seguendo un percorso tradizionale. In questa successione abbiamo definito il tempo di coesione e di unione: ci sono stati due anni di realizzazione, producendo anche un video.

Perché Kokoschka come nome della compagnia?

Kokoschka, pittore espressionista tedesco, aveva il feticcio del legno al momento dell’abbandono dell’amante e crea una pittura in cui si vive la cosa nascosta: ci piaceva il nome. Sulle arti visive abbiamo realizzato “New void” al PAC di Milano, con Alessandro Di Pietro. Si aprono progetto diversi.

La musica risulta essere nella trilogia un elemento portante: perché qiesta scelta?

Abbiamo una linea trasversale con live di elettronica. Abbiamo fatto più feste che spettacoli finora. Gli eventi dal vivo sono nuove forme di rito. Le performance riuniscono, vivendo esperienze rituali. Perché il teatro ha perso questa esprienza rituale intensa nella comunità? Sarà per il luogo? Il teatro deve levarsi le ragnatele. Vogliamo fare eventi dal vivo, musicali: puoi anche perdere di identità, ma a livello utopico c’è una chiara via che si definisce in tutto questo. Io vedo tutto questo come una responsabilità, perché potente. Il teatro fa male fisico quando è brutto e non è autentico.

Parliamo del linguaggio utilizzato, parte di una ricerca teatrale

Il linguaggio è un gioco di ricerca sulla drammaturgia, espansa alle nuove tecnologie. È stato necessario comprendere le potenzialità della tecnologia per, poi, comunicare su piani differenti, fondandoli con un’estetica. Prendo questo spettacolo come fosse un glossario di un immaginario, lo statement di un’identità. È il primo lavoro della nostra compagnia, Kokoschka.

Come avviene nella realizzazione di uno spettacolo la fase di ricerca?

La ricerca avviene dopo l’incontro con lo spettatore, nasce da una perplessità da lui avvertita e in lui sorta per un proprio certo gusto: l’identità nasce, cosi, da un ibrido e vi è, poi, una maturazione, che procede nel tempo.

Ana come regista: hai riferimenti storici della letteratura teatrale su cui lavori?

In Martire, la scrittura è di Alessandra Ventrella, abbiamo tutta la “traditio” del “cunto siciliano”, l’essere cantori oggi. La scrittrice voleva stare nel solco di una tradizione linguistica. Mi sono trovata a suonare insieme, cosi, a Marta, l’attrice che rappresenta la protagonista, Rosa. Posso dire che risultiamo essere più come dei musicisti e, nella Trilogia del Triangolo, abbiamo una spartitura unica che unisce la trilogia stessa.
Per “Ripulisti-ti-tu” ci inoltriamo, invece, nei meccanismi del cinema, con salti di piano. In generale il cinema ci dona diversi maestri e qui notiamo un riferimento a certo cinema americano, ricco di retorica. Abbiamo un clima favolistico in cui tu vedi il lato nero delle cose, sprofondando nell’abisso. Deep, ultimo dei tre “one woman show”, vede me come autrice e ho ripreso Derck Jarman come riferimento principale, soprattutto nella sua pellicola Blu.
Vediamo nella trilogia, quindi, temi diversi, ma dal punto di vista sonoro e musicale notiamo tre flussi di coscienza. In questo contesto abbiamo tutto il Novecento.

Esiste un tema comune?

Il tema che lega tutta la trilogia è la sessualita, lo scontro tra identità di genere. Nel tempo non cambia niente, dal Paleolitico la donna ancora risulta subordinata e crediamo ancora negli dei. In Martire abbiamo problemi del tempo: la venerazione di Sant’Agata, lo scarto generazionale, il rapporto con la nonna. L’anomalia è presente in quel contesto. Io, in questo caso, sul palco, non ho voluto un uomo che recitasse la parte di una transgender, ma, bensi, ho voluto una donna, per creare un unicum. L’anomalia qui diventa, così, teatro, generando altre immagini sotterranee nella storia. In Ripulisti-ti-tu vediamo diversi elementi presenti: la seduzione e il desiderio, l’edonismo e il giudizio, l’etica pubblica. Esistono tanti doppi opposti affinché si possa vedere un dentro e un fuori, il passato e il futuro. Notiamo la frantumazione dei personaggi in un flash. Il doppio, i diversi segni attivi, la maschera, il triangolo come simbolo sintetico che si staglia su diverse analogie, il sesso, il sacro, il profano: tutto questo è teatro.

Come è stato, e come è avvenuto, il lavoro con le attrici?

Cito per l’occasione altri maestri. Io esco dalla Paolo Grassi di Milano e mi sono formata con Chiara Guidi, con cui ho anche lavorato. Da questo parte il mio discorso su come unire pezzi diversi in un metodo comune. La musica ci legava così come in uno spartito. Occorre andare oltre le parole, ma occorre suonare con la stessa voce per andare verso le idee che partono dal testo. Sound design, voce, recitazione: è un’unica amalgama che esiste per reggere la tensione.

Il vostro prossimo lavoro, possiamo anticipare qualcosa?

Sarà uno spettacolo su Lars Von Trier, dove la compagnia si immergerà in qualcosa in cui ci saranno maggiori limiti. Sarà un lavoro complesso, una ricerca attiva, e per fare questo siamo stati anche in Danimarca. Occorre vedere, ora, come entrare nella scena: abbiamo fatto un lavoro anche in lingua inglese. Lars viene smembrato in due parti, tutte unite da un unico coro: è il potere dell’astrazione. Da li vediamo con “una scheggia nell’occhio”, cito Andersen, per rivendicare una nuova idea estetica, non accomodante, che genera confusione, rottura, una pretesa di lavoro. Chiediamo allo spettatore un lavoro più grosso di quello consueto. Creiamo un nuovo pubblico attraverso la seduzione e la pretesa. Lo spettacolo è strutturato per fare domande e non trovare risposte: qual’e’, se non questo, il compito dell’arte. Uno in scena mette in luce il nascondimento.
In scena nella trilogia, per esempio, il video svelava ma, allo stesso tempo, nascondeva.

Ritorniamo ai riferimenti con il cinema …

La grammatica filmica ci serviva per i primi piani: come puoi raccontare il viaggio di un’anima, altrimenti? Nella terza parte abbiamo il tema della malattia: lato nero, il teatro rompe un’aspettativa, diventa meno accomodante, ma non è gioco linguistico, in quanto si deve parlare a diversi livelli emotivi. La nostra ricerca prosegue in quanto esiste una posizione sincera su questa nostra radicalita’.

Parliamo di Martire, la prima della trilogia … Marta com’è stato lavoro al personaggio?

Lo spettacolo risulta essere a forma graduale. La forma è più classica, l’attrice è più presente. L’aspetto tecnico non è predominante come negli altri due spettacoli della trilogia.
Ana: Marta si muove tanto in scena. Si parte dalla musicalità della parola, in quanto ogni parola ha un proprio suono. Il dialogo è continuo. Si vive la forma pop del “cunto”: come distruggerlo per, poi, trasformarlo. Rosa è una donna intrappolata in un corpo. Giusto è che chi la rappresenta sia una donna. Abbiamo una ricerca di veridicità autentica, aldilà del corpo.
È uno stereotipo che provoca distacco il vedere un uomo che finge di essere transgender. Sono scelte fatte nel trovare altre angolazioni: morbidezza, femminilità del soggetto. Marta deve lavorare sul maschile. Il suono modificava in scena il lavoro di Marta: si instaura un complesso rapporto con la voce, che è costruzione di immagini. Sei attore e segui la voce, la musica, il discorso del “cunto”. Ci sono immagini di voce da seguire, nal cambio di ritmo, di timbro, senza psicologismi. Marta vibra con la voce a livello emotivo: lei è e non è dover essere. La finzione in teatro funziona quando è solo finzione: dobbiamo essere i migliori bugiardi. Essere transgender diventa, così, elemento di femminilità. Femminile viene inteso come instabilità, non come antipodo del maschile, ma come principio di moto. Il bianco e il nero, come diceva Jean Baudrillard, dei benpensanti è il modo di concepire la seduzione dei maschi verso il femminile e risulta essere infondato. Si parte da uno sguardo che genera, così, anomalia, prevedendo la bellezza. Qui si crea la catarsi. Forse per questo nella trilogia ci confrontiamo con un subconscio che si oppone: vediamo un’urgenza proiettata verso un immaginario diverso in transito, non rassicurante. Noi ci mettiamo molto a fare i lavori, siamo in transito, la ricerca è una vitaccia. Operiamo fuori dalla logica del mercato, senza urgenze: se ci credi ci investi coraggio.

Alice: come è avvenuto il lavoro di rappresentazione in Repulisti-ti-tu e in Deep?

Dobbiamo dire che in Martire e in Repulisti-ti-tu abbiamo un approccio diverso, mentre in Deep vediamo un approccio fisico e non legato a un percorso intero organico. È un approccio legato all’azione. Nel terzo spettacolo abbiamo, per esempio, un mostro che evolve, e, quindi, operiamo uno studio sul movimento, tra inquietudine e il buffonesco. Ana: La figura è indefinita e si relaziona con l’altra persona in scena: può essere la malattia, la morte. Qui sta la bellezza: il doppio nel conflitto tra dolore, accompagnamento, compassione. Si crea ambiguità nel nostro spettatore, perdendosi perché non riesce a leggere il mostro. Inizia qui il lavoro autonomo dello spettatore, abbandonandosi all’immagine: abbiamo una presa di posizione. L’artista ha un ruolo, cosi, pubblico, non razionale, nel suo rapporto con lo spettatore, molto intimo, parlando per altre associazioni. Le arti sono narrative in rottura, creando uno sfasamento.

Mariasofia: cosa ha significato lavorare per Deep nella trilogia?

Il lavoro svolto con la compagnia ha avuto un risultato ottimo. È un
lavoro fatto tra di noi in libertà e senza filtri. Ho dei pudori, spesso, nel rapporto con gli altri, anche se c’è una confidenza. Qui ho trovato un’atmosfera in cui si è liberi di sbagliare. Staccare, poi, i contatti durante il lavoro di preparazione ha permesso, poi, il nascere della trilogia. Lavoro interessante nel raggiungere un livello di intensità e di compattezza alta e sintetica. È stato come se mi dovessi rapportare all’anima di Bacon nei profili di un preraffaellita. La recitazione è stata emozionante. Difficile è risultato, a volte, sentire come l’intervento in scena fosse in una danza con tutti gli elementi presenti in scena. Difficile risulta spesso relazionarmi col video e gli elementi tecnologici. Difficile risulta a volte, altresì, diventare consapevoli di ciò che pensavo prima di entrare in scena. Il lavoro di attrice risulta cambiato: io diventavo un elemento tra gli altri elementi. Esiste una bulimia di segni, ma un grande ordine. Notiamo un glossario di un immaginario, un’acerba anomalia che non vuole essere normalizzata. Tutto risulta essere in “transito”, in mezzo ai pioli, altrimenti ti senti vuoto.


Mariasofia: com’è stato il rapporto col pubblico?
Sono interessata alle reazioni del pubblico, che potevano essere opposte: o amavano lo spettacolo, o lo detestavano. Sono felice di un progetto che dia queste reazioni. Il pubblico si approccia in modo diverso rispetto ai canoni tradizionali. Vengo dall’accademia e al pubblico viene richiesto di mollare la logica, la difesa, le paure: alcuni sono chiaramente turbati. Questo risulta essere un elemento ottimo in quanto vuol dire che il lavoro fatto ci tocca. Io ho amato molto il mio lavoro. Mi è piaciuto molto sentire che molte persone vorrebbero rivedere lo spettacolo.

Intervista a cura di Alessandro Rizzo