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Vino bianco, fiori e vecchie canzoni…

Il titolo di questa rubrica è tratto da “Maledetta primavera” di Loretta Goggi, canzone che non tratta una tematica omosessuale ma che, suo malgrado, è diventata un’icona gay.Molti interpreti più o meno famosi, italiani e non, hanno cantato negli anni l’omosessualità, alcuni in modo serio, altri ironico, altri ancora sussurrato. Le canzoni sono lo specchio dei tempi in cui vengono create. Perciò riascoltare le canzoni omosessuali significa non solo riscoprire piccole gemme “a tema” magari dimenticate dal tempo, ma soprattutto analizzare la crescita umana e culturale di una società.

TRANS
(Enrico Ruggeri)
Peter Pan – 1991

Se dovessi stilare una lista di canzoni italiane del mio cuore, di certo all’interno di essa ci sarebbero un paio di brani firmati da Enrico Ruggeri.
Ci metterei “Rien ne va plus”, meraviglioso pezzo alla Jacques Brel (ma del resto Enrico è il cantautore nostrano più francesizzato) presentato a Sanremo nel 1986 in cui, a metà esecuzione, Enrico si tolse i mitici occhiali bianchi quasi a volersi denudare di fronte alla platea, e “La giostra della memoria”, scritta per Fiorella Mannoia, in cui il dolore dei lutti familiari si stempera in una dolcezza quasi infantile.
A mio avviso, l’album più bello del cantautore milanese è stato “Enrico VIII” del 1986, quello che conteneva “Il portiere di notte”, anche se il suo successo più eclatante fu “Peter Pan”, uscito alla fine del 1991.
All’interno del disco (tutto sommato modesto) c’erano quattro pezzi che, da soli, valevano la spesa: la title track, “Prima del temporale” e “La band”. Ma, soprattutto, la traccia numero 3.

Si tratta di “Trans”, un pezzo in cui Ruggeri si infila nei panni di una transessuale con una lucidità, una sensibilità ed una capacità introspettiva davvero folgoranti. Il tutto senza scivolare mai, nemmeno per mezzo secondo di tutti i 4 minuti e 34 secondi della canzone, nel patetismo o nell’ovvietà.
Il brano parte subito come un pugno nello stomaco, con un arrangiamento drammatico e impattante, che richiama alla memoria i parchi notturni o i luoghi di “battuage”.
“Se mi vedeste lavare, pulire, senza ridere dei miei gesti… se mi sentiste parlare, trascurando la mia voce”.
Con tono freddo, quasi distaccato, Ruggeri ci racconta la sua vita di transessuale. Una vita che nessuno sta o vuole ascoltare, perché dà fastidio, perché si fa prima a fermarsi all’apparenza, allo scherno, alle classificazioni così rassicuranti per chi ha bisogno di sapere se è dalla parte del giusto o no.
Eppure basterebbe così poco per poter capire e condividere una storia fatta “di dubbi, di fughe da casa, di vestiti sbagliati”.
E magari le persone che prendono in giro o si ergono giudici sono i primi, poi, ad usufruire della compagnia di una trans “nelle macchine strette con dietro i sedili dei bambini” perché, come giustamente Ruggeri ci dice, “quelle stesse persone che ridono della mia voce hanno anche loro una croce, ciò che nessuno dice, ciò che nessuno sa”.
Invece di pensare alle trans (cosa che spesso fanno anche molti gay) come a un fenomeno da baraccone che va a screditare la categoria degli omosessuali, sarebbe bello riuscire ad abbracciare il disagio di qualcuno che vorrebbe avere “un nome uguale a quello dentro ai documenti” o che vorrebbe “passare un bel Natale con le foto da scattare” insieme alla persona che ama.
E invece, il più delle volte, subisce l’umiliazione di non essere presentata a nessuno o di essere nascosta in cucina quando viene qualcuno (un po’ come capitava a “I vecchi” di baglioniana memoria).
“Se avessi un po’ di vita anch’io vorrei passarla a modo mio, con te”.
Forse non in questa vita. Forse in un futuro in cui le persone saranno giudicate per quello che sono e non per la loro vita dalla vita in giù.
Per dirla alla “West side story”… somewhere, someday, we’ll find a new way of living…

Peccato che, nel corso degli anni, Enrico Ruggeri si sia un po’ perso lungo il cammino.
Tra pubblicazione di libri e conduzioni televisive, i troppi impegni hanno finito col distrarre uno dei più prolifici autori italiani che regalò a Loredana Berté capolavori come “Il mare d’inverno” e “Savoir faire” e scrisse per la Mannoia l’inno di tutte le donne italiane (Quello che le donne non dicono).
Però io Enrico lo aspetto ancora qui, a farmi emozionare di nuovo, a regalarmi quelle storie di disadattati ed umiliati dalla vita che oggi faticano a trovare spazio nell’attuale produzione discografica italiana.
Ma, come già profeticamente Ruggeri cantava nel lontano 1988, stiamo vivendo “giorni randagi”.

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