Franco Buffoni: intervista sul significato di Zamel

Articolo di Erica Eric Gazzoldi, scritto per il sito del Milk prima della sua chiusura

Il 18 novembre 2017, sarà presente alla Libreria Antigone di Milano (via Kramer, 20) nientemeno che Franco Buffoni. Noto soprattutto come poeta, stavolta presenterà un romanzo: Zamel (Milano 2017, Marcos y Marcos). L’evento sarà co-organizzato dal nostro Circolo Culturale TBIGL+ “Harvey Milk” e dall’UAAR di Milano. Nel frattempo, ci facciamo dare qualche delucidazione dall’autore…

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Il Suo romanzo è ambientato in Tunisia. Quali sono i tuoi legami con la cultura nordafricana?

Sono legami molto forti, avendo avuto casa nel Maghreb per dieci anni, in Tunisia: prima a Monastir, quindi a Sidi Bou, infine a Gammarth. Mi sono interessato anche alle vestigia della Tunisia pre-islamica, custodite al Museo del Bardo, e ne ho scritto in un libro di poesia, edito da Donzelli nel 2008: Noi e loro. Emblematico lo skyline che si gode dalla terrazza del Zephyr a La Marsa, con la cattedrale cattolica ottocentesca costruita dai francesi e oggi trasformata in museo, e accanto la moderna imponente moschea costruita al tempo di Ben Alì, che – per poter agire indisturbato sul piano politico – conquistò in quel modo la neutralità dei potenti religiosi.

Un romanzo che ha per sfondo un confronto culturale non è semplice da scrivere… Come ha preparato Zamel?

 Il lavoro era nato alla fine degli anni novanta come un saggio sulla storia dell’omosessualità nel mondo moderno. Poi, il delitto descritto nel romanzo – che avvenne davvero, nel 2005, a Gammarth, nella casa vicino alla mia – mi indusse a cambiare prospettiva, partendo da quel terribile fatto, e usando il materiale accumulato come sfondo culturale.

Il protagonista, Aldo, va a vivere in Tunisia, vedendola come un rifugio per un omosessuale che non riesce ad accettarsi. Perché proprio la Tunisia?

 Perché, in poco più di un’ora da Roma, arrivi in un altro mondo, dove hai l’impressione di essere accettato e persino corteggiato come tale.

 Il titolo è costituito da una parola offensiva, che scatena la tragedia finale. Le parole possono uccidere: come e perché?

In effetti, Zamel è parola nobile: si trova anche nel Corano e significa “l’uomo che ha freddo”, “che trema per il freddo”, “che ha sudori freddi”. Ed è riferita al Profeta, che aveva appena ricevuto dall’arcangelo Gabriele il gravoso incarico di salvare l’umanità. Dunque, è terrorizzato e chiede alla moglie di coprirlo con coperte, perché si sente zamel. Poi, il termine, nel linguaggio volgare magrebino, è passato a indicare l’omosessuale, ovviamente passivo (l’omosessuale attivo viene considerato uomo e basta). Al punto che insegnanti e maestri coranici evitano di leggere quel versetto agli allievi.

Si sa che lo stesso vocabolo non fa il medesimo effetto a ogni persona e in ogni contesto. Da cosa è determinato il potere delle parole? Qual è la differenza fra una parola vuota e una che uccide, o che dà la vita?

 Se Aldo, il protagonista che viene assassinato, si fosse rivolto a Nabil, il suo amante da mesi, ricorrendo al termine francese, non sarebbe accaduto nulla. Dicendoglielo in arabo, ha svegliato mostri e fantasmi nel giovane giardiniere proletario. Il suono di quella parola scatenò la furia omicida.

L’omosessuale che non si accetta ne offende un altro, il quale, a propria volta, reagisce in modo omicida. Una situazione su cui, già di per sé, si potrebbero fare diverse domande. Che bisogno può avere qualcuno di disprezzare un altro per via di una caratteristica che è anche la sua? Si può parlare di “proiezione”?

 Sì, è un meccanismo psicologico ormai ben studiato e acclarato. Disprezzando te stesso come tale, non potrai mai accettare e/o veramente amare un altro che si rivela essere come te, e dunque ti ricorda come sei tu. Quello di amare un altro omosessuale come “persona” è il passaggio culturale che trasforma il frocio in gay.

Disprezzare l’omosessualità altrui perché non si accetta la propria: è una reazione molto diffusa? Avviene anche in altri ambiti in cui non si accetta qualcosa di sé?

 Sì, è una reazione molto diffusa. Credo pertenga anche altri ambiti, ma non vorrei parlare di ciò che non conosco. Nell’ambito che ho studiato, quello omosessuale, caratterizza purtroppo i comportamenti di molti, che avendo introiettato negli anni della formazione quintalate di omofobia interiorizzata, non sono riusciti fino in fondo a liberarsene.

Si può fare l’amore con qualcuno disprezzandolo in cuor proprio? E perché mai?

Quando Aldo capisce che Nabil è davvero omosessuale e non il solito etero che vuole solo divertirsi, smette di desiderarlo, lo mette alle strette, gli pone la domanda fatale e scatena la tragedia.

La tormentata trama del romanzo è determinata, fondamentalmente, da Aldo e dai complessi che ha verso se stesso. Fino a che punto si è responsabili delle proprie tragedie? E fino a che punto è responsabile la società?

L’omofobia interiorizzata ti viene inoculata in famiglia, e poi a scuola, e poi al lavoro. Se non te ne liberi, ne resti schiavo per tutta la vita. Liberarsene è un atto culturale e di coraggio. Liberarsene fino in fondo costringendosi a non disprezzarsi intimamente è anche un atto di orgoglio. Pride, appunto.

Intervista a cura di Erica Eric Gazzoldi

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