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Buddhismo Theravada, omosessualità, sessualità, condizione femminile: la parola a Flavio Pelliconi

Buddismo e sessualità: intervista a Flavio Pelliconi, maestro theravada

Flavio Pelliconi avrebbe dovuto essere relatore all’iniziativa “Buddhismo Rainbow”, promossa dal circolo culturale Harvey Milk, ma non ha potuto partecipare per un problema personale. Ci ha comunque mandato la sua intervista, che verrà letta da Jacopo Enrico Dai-e Milani.
Flavio è un anziano praticante la Vipassana, promotore delle attività della Fondazione Maitreya nell’area milanese.
Flavio Munikumara Pelliconi (il nome di Dharma gli è stato conferito in occasione di alcune ordinazioni monastiche temporanee) oggi facilità sedute di meditazione Vipassana presso il centro Mindfulness Project in via Cenisio 5, Milano; e, nella bella stagione anche presso il Tempio Lankaramaya di Via Pienza 8, Milano.

L’intervista è stata curata da Jacopo Enrico Dai-E Milani, e la pubblicazione, nella versione MilkBlog, è stata curata da Alessandro Rizzo Lari

buddismo e sessualità flavio pelliconi

Qual è il rapporto tra buddismo e omosessualità?

Da quel che ho potuto osservare in anni di frequentazione del mondo buddista orientale e occidentale, non c’è un rapporto definito tra il buddismo e l’omosessualità. In ogni Paese, per lo più, ci si regola secondo i criteri accettati dalla società.   Inoltre, le norme del Vinaya, la giurisprudenza monastica, sono diversamente osservate nei vari monasteri e applicate con molta discrezionalità da parte dei diversi abati.

Come viene trattata e considerata la questione sull’identità di genere?

Questa è la domanda più interessante. Il percorso evolutivo che si ispira al Dharma di Buddha è finalizzato al distacco da ogni aggrappamento; perciò, anche in ultima istanza, da ogni identità. Nella pratica della meditazione l’aggrappamento a un’identità (non solo, ma anche, a quella di genere) è un ostacolo da superare per la realizzazione del pieno risveglio spirituale. A ciò, poi, bisogna aggiungere che, spesso, i buddisti credono nella rinascita, e ciò implica un continuo cambiamento di genere (oltreché di specie) da una vita all’altra. A che pro attaccarsi a un’identità che, poi, si dovrà giocoforza dismettere, non solo pervenendo al risveglio, ma anche, presumibilmente, rientrando nel giro della ruota delle rinascite?

Qual’è il ruolo della donna nel mondo buddista, sia laica sia monaca?

Il Buddha, istituendo l’ordine monastico delle bhikkhuni nel VI secolo a.C. (quando dalle nostre parti avveniva il ratto delle Sabine, per dire), operò la prima riforma a favore dell’emancipazione della donna di cui abbiamo notizia storica. Permettendo alle donne di condurre la vita ascetica, il Buddha implicitamente dichiarò la pari dignità della donna non solo sociale, ma anche spirituale. Ossia, stabilì che la donna, così come l’uomo, portava in sé la potenzialità del pieno risveglio e non era affatto inferiore. La cosa, però, non piacque affatto all’establishment brahmanico dell’epoca e non fu senza conseguenze. A causa di questo, molti brahmani, monaci e laici, scandalizzati oltre ogni dire, abbandonarono la sequela del Budhha, provocando una vera e propria emorragia nella comunità dei seguaci del Risvegliato. Per riparasi dalle critiche, il Buddha, in un certo qual modo, era stato costretto dal contesto sociale a dare alle monache (bhikkhuni) una regola ancor più severa di quella dei maschi (bhikkhu), 331 regole contro 227, ponendo, così, le premesse della successiva estinzione dell’ordine femminile per mancanza di vocazioni. L’estinzione dell’ordine delle bhikkhuni ebbe come effetto collaterale anche una revanche delle istanze maschiliste che, così, poterono, in una certa misura, riprendere piede nelle società buddiste. Poiché la credenza vuole che solo un Buddha possa ricreare l’ordine delle monache pienamente ordinate, le bhikkhuni sono state sostituite, quasi ovunque, da un ordine monastico femminile di rango inferiore in cui le monache prendono solo i 10 voti del novizio (sāmaṇera) e, perciò, non possono vantare la parità coi monaci.

Un omosessuale può essere accolto come monaco all’interno del mondo buddista? E come laico?

Come già detto, dipende molto dalla discrezionalità degli abati.

Il buddismo, storicamente, quale evoluzione ha visto in materia di tematiche legate alle questioni lgbt?

Francamente non ne ho idea. Immagino, sulla base delle cose che ho visto, che l’evoluzione, se c’è stata, sia stata parallela, oltre che contemporanea, ai cambiamenti avvenuti al riguardo nelle varie società. Data la vasta diffusione del culto buddista in Oriente, credo si debba analizzare la storia dei numerosi Paesi coinvolti, così come anche in Occidente, sia pure con qualche differenza.

Come viene trattata l’omosessualità come condizione all’interno del mondo buddhista?

Come già detto sopra, tutto è considerato impermanente, instabile e incerto, oltreché vuoto di consistenza soggettiva. Non è saggio, dal punto di vista buddista, fare dell’identità di genere un perno della propria esistenza, perché ogni condizione di vita (status, genere e specie) è instabile, impermanente e ingovernabile.   L’aggrappamento, poi, è fonte di infelicità, sia in questa vita, sia in quelle future.

Come vengono trattati i casi di persone con identità di genere non allineate con il sesso di nascita nelle varie tradizioni?

Non saprei. Mi pare che sia possibile che ogni gruppo di pratica rifletta in sedicesimo la composizione della   società, che presenta una destra conservatrice e una sinistra progressista, oltreché una spinta verso l’autoritarismo e una verso la libertà. Personalmente, in quanto Dharma-coach, non faccio, almeno consapevolmente, alcuna discriminazione di genere. Sono intimamente convinto che siamo tutti casi singoli e che come tali andiamo trattati. Non ho un messaggio per tutte le persone e nemmeno per le varie categorie di persone. Ogni persona è unica e, in quanto tale, abbisogna di un’attenzione diversa e di una diversa applicazione dei mezzi abili, ma in tutto questo mi pare che l’identità di genere c’entri poco, a meno che non si tratti di un’identità fortemente asserita.   Penso che all’interno delle comunità di pratica   non dovrebbero esistere discriminazioni legate al genere e auspico che, nello stesso tempo, si lavori per alleggerire (e non appesantire) il proprio bagaglio di identificazioni, innate, introiettate o apprese che siano.

Pace e bene a tutti gli esseri, di ogni genere e specie. Mettena cittena.

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