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Aspettando Requiem rosa di Alexandra Dejoli

Venerdi 15 maggio alle ore 18,30 presso la sede dell’associazione Enzo Tortora Radicali Milano di Via Sebastiano del Piombo 11, Milano, il Circolo Culturale TBGL, Harvey Milk, ospiterà Alexandra Dejoli, autrice del libro “Requiem rosa – storia di una transessuale nel conflitto dei Balcani”, Liberodiscrivere Edizioni‘.
L’incontro con l’autrice, che vede l’adesione dell’associazione Enzo Tortora Radicali Milano, viene anticipato da un’intervista, che qui riportiamo e che ci addentra e prepara a comprendere meglio la lettura e la portata dell’opera autobiografica: “due storie parallele – anticipa Alexandra in riferimento al romanzo – di due transizioni diverse, ma ben unite e intrecciate, la transizione di una “piccola slava”, una persona, serba, transessuale, da uomo a donna, e la transizione della “grande slava”, la Jugoslavia verso le sue nuove forme a cui aspirava, dividendosi in Serbia, Croazia, Bosnia …”.

Alexandra iniziamo dal titolo del tuo ultimo romanzo, Requiem in rosa: perche questa scelta, che cosa significa praticamente?

Requiem Rosa descrive due storie parallele di due transizioni diverse, ma ben unite e intrecciate – la transizione di una “piccola slava”, una persona, serba, transessuale, da uomo a donna, e la transizione della “grande slava”, la Jugoslavia verso le sue nuove forme a cui aspirava, dividendosi in Serbia, Croazia, Bosnia …
Sappiamo tutti in che modo si sia svolta e come sia finita la transizione della Jugoslavia, riuscendo a prendere, infine, le forme desiderate “trans -formandosi” in varie Serbie, in varie Croazie e lasciando un cumulo di macerie, rendendo tutti noi, inclusa se stessa, solo una grande (M)acedonia! Questo è, dunque, il Requiem, un addio sanguinoso a un paese suicida, un requiem che segue una delirante transizione, fatta di violenze, di morti e di sfollati. La Jugoslavia aveva aperto il proprio vaso di Pandora, liberando l’odio etnico, elemento essenziale e galvanizzante il suo lugubre “percorso”, schiacciando i propri figli negli abissi della guerra, chiudendo di nuovo il coperchio sopra di loro. Il bagnomaria sanguinoso durò per un intero decennio. All’interno di questo inferno si svolgeva un’altra transizione, piccola, anonima e innocente, che non ha lasciato né sangue, né schegge, né saccheggi … né memoria: quella transizione rosa, appunto, colore che è anche un po’ il simbolo di tutti i “diversi”. Questa è la ragione, chiara e descrittiva, del titolo del libro. Ma Requiem rosa è anche un titolo altamente metaforico, perché è un romanzo ironico e sprezzante verso la catastrofe, affrontato con un atteggiamento particolarmente spiritoso verso le vicende del delirio vissuto. E’ un ridere costante, dunque rosa, in faccia alla catastrofe in cui si è sprofondati, in faccia a quel requiem che ne diventa finale. È un riso stridulo ed isterico, un “chees” fatto di traverso e in mezzo alle macerie: un rosa macchiato, diluito in un requiem nero e infinito.

Hai vissuto nel difficile e tragico periodo della guerra civile nell’ex Jugoslavia: come ti sentivi e puoi narrarci le tue esperienze?

L’amore e l’odio verso la Jugoslavia sono visibili già nei primi capitoli del romanzo … La mia “lettera aperta” al defunto paese mostra questo sentimento da cui non posso sfuggire. Difficilmente descrivibile cosa si prova verso una patria martoriata e che, infine, nella propria agonia “mangiò” anche i propri figli: la maggior parte di loro, dei suoi figli, la adoravano. Sia nel romanzo, sia nella vita io vivo e vedo veramente la “grande slava” come entità viva, umana e allo stesso tempo disumana, dolce e crudele, vittima e omicida.
Porto quell’incontro tra contraddizioni, che mi ha segnato l’intera vita, anche nel mio “relazionarmi” con il paese, madre e matrigna, sorella e sorellaccia. Noi, figli del comunismo, credevamo che la Jugoslavia fosse eterna. Non credevamo che la guerra fra noi fosse possibile. Tutta la giovinezza venivamo preparati a essere uniti nella fratellanza, difendendola dai “nemici esterni”.
Ci vendevano slogan, ci facevano il lavaggio del cervello; ma noi, giovani, ci credevamo e quel credere rimane un fatto storico rilevante, seppure illusorio. Vedevo andare tutto in fumo, come se fossi davanti a un film … speravo, nonostante tutto il delirio, in un possibile lieto fine … poi, in seguito, ho perso ogni speranza… La secessione iniziale della Slovenia fu veloce … La guerra in Croazia fu lunga e sanguinosa …. Ho seguito l’incubo di Vukovar, rasa, infine, al suolo … Poi fu la volta della Bosnia … di Sarajevo, la città sottoposta al più lungo assedio nella storia… poi Srebrenica … il Kossovo… i bombardamenti della Nato … In mezzo alla catastrofe, dentro questo turbine, io mi stavo laureando con 110 e lode in storia. Cominciavo la mia vita lavorativa insegnando storia in una Belgrado miloseviciana, in un liceo dove la metà degli studenti erano profughi di guerra, i loro genitori erano o morti o combattenti sul fronte di battaglia. Trovavo la mia posizione totalmente assurda … surreale … Fra un’ecatombe e un’altra, in mezzo alle fosse comuni, io dovevo pretendere che a scuola qualcuno si interessasse alle mie lezioni sulla Mesopotamia o sulle guerre puniche … Di guerre avevamo gia le nostre! Producevamo più guerre noi di quante ne potessimo conoscere. Intanto continuavano a giungere molteplici chiamate per la guerra, anche fra i “diversi”: se madre patria ci riteneva “difettosi” in tempo di pace, quando le serviva la pelle non faceva troppa differenza e andavano tutti bene. Molti dei miei amici non tornarono mai dalla linea del fronte; alcuni a pezzi o in sacchetti neri di plastica. Decisi, cosi, di lasciare la catastrofe e di andare via dal macello. Non è stato facile! Con un mio amico, il mio amore di allora, siamo partiti per Budapest, divenendo utili le sue conoscenze che aveva all’estero. Decisi, infine, in virtù del fatto che ero stata a Firenze a studiare l’italiano, di spostarmi in Italia, mentre il mio amico rimase a Budapest. La guerra si era appropriata di ogni segmento della mia esistenza, mi ha portato via Gli amori, la famiglia, che è rimasta a Belgrado, il lavoro, il mio paese: tutto. Avevo, però, salvato la vita! Ne ero pienamente cosciente, per fortuna.

Ti trasferisci a Roma, completi la tua laurea in storia: vivi la transizione ma non sei esente da sterotipi che tendono a gettare discredito e pregiudizi nei confronti di chi mette in discussione il proprio genere, chiedendo di vivere liberamente la propria idenita di genere: come hai affrontato questo passaggio?

Ero una “profuga” insolita, tutta una vita passata fra i banchi di scuola e facevo parte di una generazione generazione che ha viaggiato il mondo e imparato le lingue. Mi ero appena laureata, ma, appena sbarcata dall’Est europeo in cerca di salvare la propria pelle, avevo anche una bellezza ambigua e appariscente. Mi sentivo totalmente sola in un mondo nuovo, con le porte chiuse intorno a me. Sono sempre stata dell’opinione che io sono anche una trans, non solo una trans. Ero sorpresa dell’importanza che l’ambiente dava e continua a dare al mio aspetto, spogliandomi totalmente di ogni altro contenuto. Credevo che le cose riguardanti il mio genere potessero eventualmente interessare solo il mio medico, attuale compagno, ma non anche gli altri. Il mio credo, o la mia ingenuità, mi ha guidato fino alle porte della Pontificia Università. Io sono una storica ed era del tutto normale che io continuassi gli studi post laurea, seguendo i corsi più appropriati. Passato l’esame di ammissione, mi sono trovata in mezzo ai francescani. Adattai, cosi, la mia parte fisica al nuovo ambiente … seguii i corsi e le materie con interesse, diedi tutti gli esami con successo. Ero ben accettata, pur non avendo creato amicizie … I frati, distaccati ma corretti, stavano fra di loro, rimanendo, cosi, garbatamente esclusa dal loro mondo … La cosa non mi dispiaceva tutto sommato: mi trovavo bene in un ambiente sotto tono, colto e silenzioso, e devo riconoscere di non aver mai sentito battute su di me, né ho mai visto quelle gomitate o dementi occhiatacce riservatemi, invece, in ambienti esterni, chiassosi, volgari e decisamente meno eleganti. Ottenni un dottorato in medievalistica e in studi francescani. Quando cominciai a cercare lavoro capì meglio come tutto funzionasse. Mi voltavano le spalle … indietreggiavano e non osavano neppure fare quelle solite promesse … i colleghi frati, uno per uno, prendevano i posti che li spettavano, ma io no, ero tenuta fuori dal mondo del lavoro, almeno quello per cui ero preparata, stando almeno ai certificati … Ho capito che per tutta la vita, nonostante tutto quello che avevo studiato od ottenuto studiando, sarei sempre rimasta “una trans” … Solo questo!
Il mondo sembrava fissato con la mia sessualità, tenendo il dito puntato sul mio modo di vivere il mio genere. Il fatto che io avessi anche ben altro da mostrare non interessava a nessuno. Mi valutavano con gli occhi velati dai preconcetti, mi annusavano in un modo rude, guidati dai più bassi istinti, per di più repressi ed aggressivi. Questo comportamento primitivo e provinciale mi ha fatto declassare l’intera esistenza. Trovai lavoro come domestica. Dovevo pur continuare a vivere e nel tempo libero continuavo a fare ricerche e a scrivere. Nell’anno 2006 ho pubblicato il mio primo romanzo, Elena Dragas ,l’ultima imperatrice bizantina. La parte “professionale” presente in me non potevano del tutto ucciderla. È stato, questo, il primo libro a occuparsi di una imperatrice bizantina che regnò più di 30 anni, la prima volta in cui qualcuno scientificamente confermasse la sua influenza sulle importantissime vicende storiche, inclusa la famosa “unione di Firenze”, quella fatta tra cattolici e ortodossi. Il libro è stato apprezzato dagli ambienti storici altamente specializzati ed è diventato testo per i corsi di studi bizantini. Sono stata informata da professori universitari che il mio testo venga spesso consultato dai propri studenti, anche alla famosa “Sapienza”, l’università di Roma, una delle più grandi d’Europa. Immagino che gli studenti non fossero informati che l’autore di quel serio romanzo storico sia una persona trans, costretta a lavorare come domestica, pagando, così, il pegno per la propria diversità con un interesse quotidiano.

In Jugoslavia spesso eri soggetto di discriminazioni, emarginazione di una cultura maschilista che nega le differenze in virtu di un pensiero unico e modello comportamentale omologante: puoi raccontarci la tua esperienza?

La Jugoslavia della mia giovinezza include diversi contesti, a volte contrapposti, ma tutti ugualmente ostili verso qualunque forma di “diversità”. Penso, ovviamente, a due contesti essenziali, quali il comunismo prima e l’ultra-nazionalismo dopo. Comunismo, anche nella sua forma titoista, controllava ogni segmento della vita, inclusa quella sessuale. Controllare la sessualità, all’ora come oggi, in Jugoslavia od ovunque altro luogo, vuol dire tenere sotto controllo l’intera società. L’immagine del compagno maschio, muscoloso, lavoratore, e della compagna partigiana, asessuata e mascolina, era quella consentita e non c’era posto per una diversa opzione. Qualunque tipo di “diversità” in questo ambito veniva visto come anticomunista, pro occidentale, sovversivo e, dunque, pericoloso e da estirpare con la forza. L’ultra-nazionalismo che ne seguì produsse la propria estetica, formalmente diversa, ma che era ed è sostanzialmente rimasta la stess, intransigente verso tutto ciò che mette in discussione il ” sano” rapporto fra donna-madre e uomo-guerriero e padre di famiglia. Sia l’omosessualità sia la transessualità vengono viste come “anti-nazionali”, tessuto deviante che mette in pericolo la salute e la purezza della nazione. Anche in questo caso l’elemento “deviante e malato” viene vissuto come pericolosa introduzione all’Occidente con lo scopo di distruggere la nazione. Il genere o l’orientamento sessuale diventano l’arma fra due mondi in conflitto. In un capitolo del mio libro, Requiem Rosa, ho descritto il momento in cui i miei connazionali, durante i bombardamenti su Belgrado, non hanno permesso ai propri “diversi” di entrare nei rifugi, cacciandoli fuori, sotto le bombe dell’ aviazione straniera. La coesione nazionale escludeva il proprio elemento”malato”. L’unica essenziale differenza fra le due realtà storiche era che al comunismo mancava una forte base teorica alla discriminazione che praticava, mentre all’ultra nazionalismo questa base veniva, e viene offerta, dettagliatamente elaborata dalla chiesa ortodossa.

Parli di due rinascite: una dovuta alla transizione e una dovuta alla ricostruzione di una vita ed esistenza in un altro paese, potresti approfondire qiesto aspetto?

Ero transessuale in un paese, ma anche in un periodo storico, nel periodo in cui neanche si capiva il significato di questa parola. Con l’ingenuità di un bambino prima, e la sfrontatezza di un adolescenziale dopo, portavo la mia “strana” natura attraverso i regimi e gli ambienti sfavorevoli ad ogni libera espressione. Puoi immaginare il senso di smarrimento e di confusione di un’appena adolescente a cui alla mattina dicono a scuola o altrove che sia di “una bellezza straordinaria”, mentre a mezzogiorno le gridano “frocio schifoso” e nel pomeriggio le fioccano addosso, nuovamente, dei corteggiamenti con superlativi che, in prima serata, diventano insulti o pietre. Non sapevo né chi fossi io, né cosa il mondo intero volesse da me, sapendo solo di incuriosire tutti e di vivere in un mondo tanto crudele, quanto falso . Mi ricordo anche delle più assurde situazioni, come quando, più di una volta, cominciava a sbeffeggiarmi qualche gruppo di ragazzi, mentre un altro gruppo prendeva le mie difese …. io fuggivo, così, inorridita, mentre i due gruppi cominciavano a malmenarsi fra loro: provocavo, cosi, un’eruzione di emozioni diverse, non volendo che ciò avvenisse e pur non avendo fatto niente se non essere me stessa. Decenni dopo, quando, temprata dal tempo e dall’ esperienza, ho realizzato meglio chi fossi, quanto valessi e perché stessi nel mirino dei repressi, si sono aperte le porte della piena coscienza, di una rinascita. Appoggiandomi anche alle cure ormonali e agli interventi estetici, ho estrinsecato le forme che erano disseminate dentro di me dalla nascita. In quel senso è stata rinascita; ma una rinascita sempre lunga, evolutiva … non credo molto alle rivoluzioni in questo campo … e non bisogna scordare che le cicatrici del vissuto rimangono per sempre indelebili, segnandoci profondamente. Una volta diventata, comunque, più cosciente e serena, ho creato i presupposti, indipendentemente dalla posizione geografica, di vivere meglio una nuova vita, anche in un paese che sempre di più consideravo la mia nuova patria. La bellezza di Roma aveva su di me un effetto terapeutico. Passavo giornate intere “da sola con il Caravaggio, Pinturicchio … in compagnia di Caracci o dei fratelli Zuccari”, lontano dai turisti e dalla confusione. Il fatto per cui la città, anche nelle sue parti non proprio centrali, abbonda di capolavori, mi affascinava. Non solo quella Roma solenne, aulica, ma anche quella bonaria, pasoliniana o dei “castelli”, ha fatto su di me un effetto curativo, la sua bellezza mi ha rigenerato e sostenuto in quei momenti delicati in cui, fra le fiamme, se ne andava via la Jugoslavia. La forza della bellezza, la potenza di un ambiente esclusivo, unico nel suo genere, di cui gli stessi Romani, con mia grande sorpresa, spesso ignorano l’esistenza. Avevo lasciato la cenere dell’apocalisse jugoslava dietro di me, ma le conseguenze dello sfacelo mi seguivano, mi avevano segnato, mi soffiano, ancora, dietro il collo, mi ritornano nel profondo del sonno. Requiem Rosa è anche un racconto su questa persecuzione. È stato un libro che mi ha ossessionato e su cui stavo lavorando da più di tre anni … Rivivevo con inaspettato fervore gli episodi che mi sembravano dimenticati … Ero, però, anche totalmente dedita al tentativo di scrivere un buon libro … Ho lavorato a lungo e in modo dettagliato sulla lingua … a volte passavo diversi giorni a pensare a un’unica frase, cercando dentro di me la parola giusta, quella più adeguata … Non è facile saper reggere il forte lessico di una lingua che si adora, ma che, comunque, non è la tua madre lingua.

Da quel periodo che ha visto il tuo arrivo in Italia molto è cambiato, in termini culturali, storici, politici e sociali: che cosa in specifico si può dire in merito per le persone transgender e per le questioni riguardanti l’identità di genere?

L’uomo tecnologico progredisce più velocemente dell’uomo etico. Questo è un fenomeno globale, non solo italiano. Il periodo degli ultimi 20 anni, da quanto vivo in Italia, è stato un periodo in cui le cose che sono, appunto, cambiate sono quelle che riguardano la sfera tecnologica. All’inizio non esistevano né i computer né internet, e si sarebbe ancora atteso un paio d’anni per i primi telefonini. Si viveva totalmente in un altro mondo negli anni novanta, considerando, però, sempre l’aspetto che menzionavo prima. Sul piano sociale, riguardo il tema di una maggiore inclusione della popolazione lgbt, non vedo significativi progressi. Vent’anni fa le strade erano piene di trans prostitute come lo sono adesso, ed era difficile trovare una transgender impegnata o impegnato in un altro campo, se non quello dell’intrattenimento: così è ancora oggi. Sentiamo ancora oggi come all’ora le voci perbeniste intrise di frasi del tipo “bisogna aprire alle trans opportunità fuori dal mondo della prostituzione”. Noi abbiamo bisogno dei cambiamenti, ma ci vengono offerti degli slogan, gli stessi di due decenni fa! Si cambiasse almeno il linguaggio, si spostasse una sola virgola … Se tutto ciò non fosse tragico sarebbe comico, oltre che noioso. Sono cosciente che sto parlando di cose che a molti non piaceranno, ma questo non mi interessa affatto. Adesso, combattendo totalmente da sola, fuori dai clan, cercando di dare visibilità al mio libro, incomincio a vedere più da vicino certi ambienti. Sono, per esempio, costretta a contattare spesso proprio quelle persone che, in pubblico, non fanno altro che “difendere” i diritti lgbt, quasi avessero una delega a vita sull’argomento e ben “televisionati”. Sto capendo che a queste persone, spesso, non interessa né libro, né me stessa, né il tema, né nient’altro che stia fuori dal loro spicciolo carrierismo ed interesse personale. Impegno tutta me stessa a spiegare loro le cose che, visto la loro posizione, dovrebbero essere a loro ben chiare da sole, ossia l’importanza di un libro che parla dell’argomento che li riguarda professionalmente, un libro che racconta la transessualità in un modo nuovo, scritto da una persona trans, fenomeno rarissimo, visto che noi, quasi sempre, veniamo descritte dagli altri. Imbozzolata nelle poltrone, questa categoria di persone è incapace di qualunque altra cosa se non aggirarsi tra un salotto televisivo e un altro: ma una volta che le telecamere vengono spente mostrano la loro vera faccia di spicciolo protagonismo provinciale, che risulta a loro anche molto remunerativo. Non sono tutti, fortunatamente, cosi, ma buona parte di questa “elite” autoproclamatasi risulta esserlo, mantenendo “nello stagno” tutta la questione e facendo andare avanti solo la propria carriera politica.

Potresti affrontare una comparazione, in base alla tua esprienza, tra l’ex Jugoslavia e l’Italia?

La Jugoslavia è un paese estinto, archiviato dalla storia e nella storia per sempre. Può essere analizzata come esperimento di convivenza fra “diversità “, esperimento sociale di un comunismo blando, come esempio di una politica estera apprezzabile di paese non allineato, un mondo in se, vinto dal nuovo ordine mondiale e dai nazionalismi. Posso fare il confronto solo osservando la posizione dei “diversi” .La Jugoslavia era dura verso i propri figli “diversi”, negandone anche l’esistenza, annullando e appiattendo ogni variazione sul campo in nome di un monoteismo politico di stampo comunista. C’era solamente buio. Belgrado entrava nel ventunesimo secolo come capitale europea che aveva pochissimi posti pubblici, i parchi o qualche bar, in cui si potesse incontrare i propri “inesistenti”, rimanendo tutto semi-illegale, più o meno fuori legge. La gente era, ed è rimast, particolarmente omofoba. Del resto, dove la diversità etnica piange neanche quella sessuale può ridere! L’Italia è, invece, un paese occidentale, la popolazione lgbt è numerosa, onnipresente, più tollerata e accettata, sempre di più rilevante fattore elettorale e politico da non trascurare o lasciare da parte. Ma l’Italia è anche la periferia delle grandi città, dove le scene di omo-transfobia sono un fatto quotidiano; è anche la provincia dove i suicidi, in particolare fra gli adolescenti, sono numerosi, a causa di un rifiuto sociale o di un auto rifiuto generato come conseguenza della dominazione religiosa su tutti i principali aspetti sociali, che incombe su una fragile laicità, solo formalmente garantita. Facendo alcuni confronti bisogna, comunque, sottolineare come particolarmente pericolosa la situazione non solo delle persone trans, ma dell’intera popolazione lgbt durante l’ultimo conflitto jugoslavo, non solo per l’ovvio motivo della guerra, ma proprio per la “natura sovversiva” che ci veniva ufficialmente attribuita. La diversità sessuale era vista come un’importazione dal mondo occidentale contro cui occorresse iniziare uno scontro armato. La Serbia si era ,infine ,trovata in guerra aperta con l’occidente, ed essere considerati filo occidentali poteva essere fatale. In un capitolo del libro ho descritto l’assurda situazione in cui dovevamo ripulire le case da ogni oggetto che richiamasse l’occidente attraverso le immagini, i simboli grafici o le scritte in inglese. Il tuo genere, oppure il tuo orientamento sessuale venivano considerati come un’arma prolungata dell’occidente nella sua guerra anti-serba. Tutto questo risultava assurdo quanto pericoloso. In Italia la situazione non è cosi drastica, ma anche qui le persone trans nel confronto con il resto della popolazione, inclusa quella lgbt, si trovano nella situazione meno favorita: risultano molto meno tollerate dei gay, spogliate di ogni contenuto tranne che quello sessuale, legate dall’immaginario collettivo esclusivamente alla sfera della prostituzione e del degrado. Molti si sentono chiamati, nonostante l’assoluta incompetenza, a tenerci lezioni sul comportamento, sul vestiario, sibilando le frasi fatte di una morale, tanto falsa tanto spicciola. Potrei aggiungere anche che noi piacciamo tanto agli uomini, e, spesso, loro malgrado, questi ultimi provano paura e vergogna nel provare questo sentimento di attrazione. Dal modo con cui riescono o meno a elaborare questo disagio dipende anche la loro reazione nei nostri confronti, che risulta, cosi, non facilmente prevedibile. Sembra che noi, le transessuali appunto, siamo quelle che riescono a unire e a far concordare l’in-concordabile: il comunismo, l’ultra-nazionalismo, la religione ortodossa e quella cattolica. Non siamo previsti dalla visione del mondo predicata dai loro profeti, laici o religiosi che siano: la loro visione, oltre che storicamente compromessa, appartiene, però, a un passato e rappresenta il regresso. Il futuro è nostro. La necessità di essere se stessi non guarda in faccia a nessuno ed è la fonte di una forza inarrestabile. Noi, dunque, siamo nuove forme, nuovi contenuti, esperimento estetico e sociale, necessità e, dunque, vitalità e azione: il futuro, appunto.

Che cosa occorre fare oggi, ancora, come movimento, spesso ostacolato nella sua libera espressione politica, come ci insegnano molti stati dell’ex blocco sovietico, e la Serbia, la Russia, per poter garantire la piena affermazione dei diritti e del rispetto della dignità delle persone transgender?

Bisogna capire che senza l’apertura mentale e lo spostamento della coscienza in avanti, la piena affermazione dei diritti delle persone transgender sia impossibile. Siamo testimoni di un quotidiano calpestare i diritti, anche quelli ufficialmente garantiti, appartenenti alle più varie categorie: figuriamoci quelli delle persone trans, che, come categoria autonoma, neppure esistono. Le associazioni devono lavorare su due campi essenziali e contemporaneamente: quello interno, rivolto alle stesse persone transessuali, e quello esterno rivolto alla società e alle sue strutture politiche. La lotta per il riconoscimento degli elementari diritti civili, la segnalazione di soprusi e di violenze, insieme alla conquista degli spazi di visibilità nei media, devono essere sincronizzate con il lavoro “sul terreno”, offrendo aiuto, informazione e posti di aggregazione per le persone transessuali. Solo un quotidiano lavoro e una vera simbiosi con la “base” possono risultare produttivi. Le organizzazioni burocratizzate, che non danno informazioni, e che non promuovono il contatto quotidiano con le persone che dovrebbero rappresentare, sono diventate fini a se stesse, assorbite dalle nomine dei “segretari e sottosegretari “, dal carrierismo e dalle dipendenze dai partiti: queste possono diventare il più grande freno nella lotta dell’emancipazione delle persone trans, a volte maggiormente dei noti e storici “nemici” di una tale emancipazione.

Intervista a cura di Alessandro Rizzo