Vai al contenuto

Quando l’arte diventa filosofia: semplicemente Andy Warhol

Possiamo erigere Andy Warhol a filosofo esistenziale o, perlomeno, culturale e artistico. Un libro edito da Abscondita, “La filosofia di Andy Warhol da A a B e viceversa”, ne è la testimonianza più puntuale e dettagliata. È assodato che il grande artista abbia segnato una pagina fondamentale nella storia moderna e contemporanea dell’arte figurata ma, anche, scritta.

Si formò al Carnegie Institute of Technology (CIT), istituto di arte pubblicitaria, oggi denominato Carnegie Mellon University di Pittsburgh, laureandosi nel 1949 e trasferendosi a New York, dove incominciò ad affermarsi nell’ambito della grafica pubblictaria offrendo la propria attività a importanti firme quali le riviste Vogue e Glamour.

Importante è sottolineare la determinazione di Warhol nel fondare uno studio artistico a New York, dal basso costo di affitto pur essendo in pieno centro della “grande mela”: Factory. Questo spazio, dove tutto veniva tollerato nella sua dimensione espressiva e comunicativa, assume valore ideologico, diventando testimonianza della valenza filosofica di un uomo che, come dice il critico Antonio Spadaro, ha operato in America quando questo Paese incominciava a diventare importante e rilevante a livello internazionale.

Jean-Michel Basquiat, Francesco Clemente e Keith Haring sono le firme più autorevoli che passarono e transitarono in questo luogo collettivo, ricoperto di stagnola e vernice argentata, tanto da essere denominata “Silver Factory”, per opera del fotografo ufficiale Billy Name. La genialità di Andy Warhol è assodata e riconosciuta nella sua trasgressività, stravaganza e in una tormentata ricerca di essere “normale” e di definirsi tale. La sua concezione esistenziale traspare nella sua arte e tale punto di vista pervadeva un ambito, quale era Factory, libero, emancipato, contaminante e contaminato, spazio fisico dove si inveravano i pilastri fondativi della pop art, disposti in stile di vita.

Factory era, così, un luogo delle libere creatività, ma anche di condivisione di momenti in cui la nudità, l’uso di droghe, le relazioni omosessuali e le performance di transgender e drag queen si proponevano diventando oggetti di ispirazione per Andy. I suoi lavori, diversi videofilmati, che riprendevano questi oggetti a lui vicini e da lui vissuti, circuitavano in una rete di teatri in modo clandestino, nascosto, tramite una comunicazione fatta “door to door”, in serate che spesso venivano represse dall’intervento della polizia con retate furibonde e violente. Nessun comportamento alla “Silver Factory” veniva censurato: nessuno comportamento veniva emarginato, non esistevano differenze, pur essendoci diversità che si incontravano e si interpretavano, e nessun giudizio moralista poteva ergersi a verità assoluta, parametro valutativo monolitico.

La serialità delle immagini che si ripercorrono con una certa continuità sullo schermo, nel dipinto, è la tecnica che maggiormente permetteva a Warhol di proporre con gli strumenti dei mezzi di comunicazione di massa la rilevanza estetica delle immagini di materie quotidiane, prodotti commerciali e di consumo. Le immagini venivano, così, svuotate del proprio contenuto attribuito dal pubblico mainstream, riassegnando loro una dimensione artistica e visiva notevole e autonoma.

“E’ dalle idee e dalla personalità di ognuno che Warhol trae il materiale per la sua arte”: ed è reale tale definizione nel momento in cui Warhol fa del consumo e del commercio una forma d’arte, rendendo quest’ultima a sua volta un oggetto di consumo e di costume, esponendo, per esempio, sculture come le scatole di detersivo Brillo sugli “scaffali” dei musei; proponendo figurativamente in modo ripetitivo, lui stesso affermava che lavorare alla Factory era come lavorare in modo concettuale in una catena di montaggio, icone mediatiche, da Marylin Monroe a Mao Tzedong. Popolare è la quotidianeità delle sue opere, fatte di costumi e di consumi, mentre emozioni sono suscitate dall’esasperazione della continua ripetitività delle rappresentazioni in un momento artistico, quello in cui Andy opera, di crisi delle forme classiche figurative. Andy ha reso artistico ciò che poteva essere banale e ciò che era banale veniva volgarmente snobbato dalle espressioni culturali maggioritarie.

Un filmato poteva essere un quadro per Andy: le figure in campo sono centrali, la telecamera è fissa sul soggetto inquadrato, i fondi spesso sono monocromatici, magari a tinte semplici. Tutto questo detta la centralità dell’immagine, rendendola poetica e lirica nonostante potesse essere intesa come semplice, quindi non degna di attenzione e di esaltazione. Questa è la filosofia della pop art che si traduce in epigrafi lapidarie quanto dirette, quali: “essere freak in modo chic”, “essenza passiva dello stupore”, “segreta conoscenza che ammalia”, “perfetta alterità”, “trascuratezza narcisistica” o, infine, “l’aura ombrosa, voyeuristica, vagamente sinistra, la pallida e sussurata magica presenza”. E di aura ombrosa e voyeuristica è intriso il suo capolavoro per antonomasia, che suscitò scandalo tra i benpensanti e conservatori dell’epoca, ma che segnò un cambio di pagina e una rivoluzione del modo di pensare l’arte prima che farla. Stiamo parlando di Blow Job, un cortometraggio videoartistico di 35 minuti, che riprende il viso di un ragazzo in primo piano e per intero nel campo per tutta la durata e nelle varie successioni di espressioni e di movimenti fisici. Fuori campo si ipotizza la presenza di una persona che sta compiendo una fellatio su di lui. Come è coerenza nello stile di Warhol sullo sfondo abbiamo un semplice muro con mattoni a vista, quasi fosse quello di un vicolo di New York, e, a conclusione del momento epico e finale, il protagonista, unico, si fuma una sigaretta rilassato, passando da uno stato di visibile tensione erotica a uno di rilassatezza e soddisfazione. L’oggetto che è quotidiano viene trattato senza malizia, con un’intensità di estetica elegante, raffinata, passionale, narrata con equilibrio, con una naturalezza fatta di buon gusto e sobrietà.

Andy è regolare nella sua trasgressività, come trasgressiva risulta essere la sua regolarità, esigenza di regolarità. Concludiamo con una sua citazione che riassume la filosofia di esaltazione della quotidianeità che fa della sua sperimentalità l’inizio di un nuovo e dirompente modo di pensare e di vivere l’arte e il rapporto con l’esterno, l’oggetto esterno, che diventa quasi un feticcio pieno di vitalità. “Mi piace la routine. La gente mi telefona e dice: “Spero di non aver disturbato la tua routine, chiamandoti””. Sanno quanto mi piace”.

I commenti sono chiusi.